venerdì 12 agosto 2011

Piacere, "Mi chiamo Scrivo"




Agnese Cerroni




Roma- Un viaggio allucinante nella follia altrui. Un romanzo vorace, un inno alla scrittura stessa per Ju Amoroso, che torna con "Mi chiamo scrivo" (Elliot edizioni).




Scrivo vive a Londra, indossa Converse viola scolorite e calma il suo respiro con la nicotina. La sua droga è la scrittura, quella droga che “non si inietta, che non si respira, che non si compra”. Una scrittura fatta di parole vomitate, una valanga, una vertigine anestetizzante che è rabbia verso quel solitario giocatore dell’universo; quello che prima giocava a dadi, e che adesso sembra ansioso di completare l’ultimo livello del suo videogame. Svegliatasi in un letto d’ospedale in seguito a un coma durato due anni, si ritrova in uno scantinato con dodici sedie ad assistere a delle sedute psichiatriche di gruppo. Sarà così costretta a lottare contro il dolore degli altri impregnandosene come una spugna e servendosene come di uno sciogligrasso per lavare via il suo. L’unico modo per trovare sollievo sarà mettere nero su bianco le storie di questi dodici folli. Quella di Howard, il ragazzo che in seguito alla morte di moglie e figlia è convinto di vivere in una cartolina; quella di Colin, il bambino di appena dieci anni che soffre di attacchi di panico; quella di Stew che, accecato dal buio, si protegge con un accendino; quella di Gwen, la ragazzina scontrosa che ha trasformato il suo giardino in un gigantesco parco giochi con tanto di montagne russe. E proprio come una vertiginosa corsa sulle montagne russe, la vita di Scrivo si trasformerà in un’alternanza di adrenalina pura, incoscienza e panico totale; scricchiolii, pendii e riprese; conforto dato e ricevuto, in un vortice che va affrontato a parole, sino alla fine della corsa. ESTRATTO: «Cosa scriverei se potessi inviare una lettera a Dio? Forse gli parlerei della fame nel mondo e delle guerre persistenti. Anzi, forse no. In fondo lui da lassù dovrebbe vedere tutto. Forse gli farei vedere le piccole cose. Anzi, nemmeno quelle. Forse lo obbligherei semplicemente a vivere un giorno nella testa di ogni uomo, per capire cosa si prova veramente a essere pazzi».

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